Carmen Boccu

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Orizuru

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carmen 6Partecipazione alla mostra Orizuru presso la Fabbrica del Vapore, Milano dall’8 al 13 aprile 2014 all’interno della mostra Sharing design, il mondo 3D incontra il mondo 10D. Vernissage 8 aprile, dalle 18.30.

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Biblioteca Anna Caputi-8 MARZO 2014  ORE 11.30 Accademia di Belle Arti di Napoli, Via Bellini 36 – Napoli

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“La nuvola in calzoni” – Danzare sul filo

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“Ma la notte sempre più s’impantana per la stanza…”
Colori ad olio diluiti su cartoncino
50x56cm

Avvicinarsi al sacro fuoco senza timore di bruciarsi. A mani nude, raccoglierne una favilla e posarla altrove, per dar vita a una fiamma nuova e insieme antica.
Dipingere Majakovskij, incidere Majakovskij richiede coraggio. Non solo perché l’accostamento a un titano della poesia è sempre arduo, presuppone infinita sensibilità ed espone comunque al rischio di ridurre la ricchezza del verso, la sua polisemia allusiva e sfuggente, all’evidenza univoca del segno. Affrontare Majakovskij è una sfida particolarmente complessa anche perché il georgiano non fu “soltanto” poeta, ma ebbe pure una valida formazione da artista visivo.
Proprio grazie a questa doppia natura creativa riuscì a elevare la temperatura retorica della sua lirica fino a toccare il punto di fusione tra verso e immagine. Un’impresa nella quale giocò un ruolo fondamentale il ricorso – appassionato, martellante, a volte tracimante – al tropo della metafora: la più “visiva” tra le soluzioni formali a sua disposizione.
Ma la ricerca del Graal dell’unione tra pittura e poesia non fu certo l’unica sua preoccupazione, corroso com’era da un’urgenza espressiva che non avrebbe mai permesso isolamenti parnassiani, né avrebbe concesso spazio a estenuate sperimentazioni sinestetiche. Istanze lontanissime dalla sua indole romanticamente eversiva, nichilisticamente rivoluzionaria, capace di immenso candore e rabbie purissime. “Giovane strafottente e dall’aspetto di ironico apache”, lo definì l’amico David Burljuk, padre della pittura avanguardista russa.
Majakovskij: un uomo capace di sognare una vita senza fine e al tempo stesso di corteggiare la morte, prima di abbracciarla volontariamente il 14 aprile 1930, a nemmeno 37 anni d’età.
Trasporre in forma e colore una poesia che è già immagine – e per di più immagine rovente, creata da un genio tragico – implica il pericolo di cadere nel didascalismo, d’incagliarsi in sterili tautologie.

Per dipingere e incidere La nuvola in calzoni, per confrontarsi con questo poema per ben due volte a distanza di oltre vent’anni l’una dall’altra, come ha fatto Carmen Boccù, il coraggio non basta. Perché La nuvola in calzoni è forse l’opera che meglio testimonia l’ansia visionaria di Majakovskij, la più vicina (anche cronologicamente) alla sua formazione artistica e, al tempo stesso, la più libera e ingenua, ancora lontana dalle censure e autocensure della plumbea epoca staliniana. Una composizione figlia dagli entusiasmi e della sensibilità esasperata di un poeta poco più che ventenne, posto di fronte agli sconvolgimenti del cuore e della storia.
Fortunatamente, oggi come negli anni Ottanta, Carmen è artista dotata di una sana vena di incoscienza. Dote indispensabile per provare a danzare su quel filo che Majakovskij ha teso, ad altezze vertiginose, tra la vetta della passione e il mondo iperuranio dell’eversione lirica.

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Ludiche geometrie

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Clessidra che reclama la libertà Acrilico su carta 1995 70x50cm

Clessidra che reclama la libertà
Acrilico su carta
1995
70x50cm

Triangoli e semicerchi, punti e linee rette. Segni semplici ed essenziali: le basi della geometria, della definizione dello spazio. Forme che l’uomo ha compreso essere le più adatte a condensare l’infinità dei fenomeni visibili in un numero limitato di modelli razionali, ma che con il trascorrere dei secoli hanno smesso di essere soltanto strumenti di rappresentazione e misurazione. Hanno acquisito un significato autonomo, allontanandosi sempre più dalla contingenza del dato naturale. Sono ascese nell’empireo della perfezione, hanno impugnato lo scettro del significato assoluto, indossato la corona del valore spirituale: la stella di David e i diagrammi mistici degli Yantras, il triangolo simbolo cristiano di Dio e il cerchio, emblema di perfezione per gli islamici. E poi le elucubrazioni di cabalisti e alchimisti, impegnati ad attribuire valori esoterici a numeri e poligoni. Elementi geometrici ai quali nemmeno l’arte del Novecento è stata insensibile. Anzi, li ha trasformati nei punti fermi della pittura astratta, o quantomeno di una delle sue principali declinazioni. Astrazione geometrica, estremo rigore: punto, linea e superficie. Tuttavia, proprio nel Novecento, il filo che in origine legava l’oggetto alla sua sintesi geometrica, e la geometria al simbolo, il simbolo allo spirito, è andato sfibrandosi con impressionante rapidità. I lirici propositi che avevano animato Kandinsky, Malevic e Mondrian hanno ceduto il passo ai pattern ubriacanti dell’op-art, sono stati colpiti al cuore dagli spigoli affilati del minimalismo. In arte la geometria è diventata autosignificante e autoassertiva, glaciale e monosemica.
Provare a riannodare quel filo virtuale è la ragion d’essere di queste opere di Carmen Boccù. Con la sua passione per lo shivaismo del Kashmir e per la cosmografia induista, con il gusto raffinato del disegno, del colore e della composizione delle forme. E soprattutto con l’accettazione della fragilità e dell’imprecisione, perché le sue figure rivendicano il fatto di essere tracciate a mano libera, le campiture cromatiche non conoscono l’arroganza della perfezione. Riconoscere la fallibilità della mano, la debolezza del tratto di matita significa accettare la vita: l’errore, la mutazione improvvisa, la delicatezza di un segno che potrebbe farsi differente, o addirittura scomparire da un momento all’altro. Tutto questo equivale a cercare un ordine, un significato in ciò che esiste, lasciando sempre una porta aperta sul Caos, che dell’universo è la fonte primordiale.

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