Triangoli e semicerchi, punti e linee rette. Segni semplici ed essenziali: le basi della geometria, della definizione dello spazio. Forme che l’uomo ha compreso essere le più adatte a condensare l’infinità dei fenomeni visibili in un numero limitato di modelli razionali, ma che con il trascorrere dei secoli hanno smesso di essere soltanto strumenti di rappresentazione e misurazione. Hanno acquisito un significato autonomo, allontanandosi sempre più dalla contingenza del dato naturale. Sono ascese nell’empireo della perfezione, hanno impugnato lo scettro del significato assoluto, indossato la corona del valore spirituale: la stella di David e i diagrammi mistici degli Yantras, il triangolo simbolo cristiano di Dio e il cerchio, emblema di perfezione per gli islamici. E poi le elucubrazioni di cabalisti e alchimisti, impegnati ad attribuire valori esoterici a numeri e poligoni. Elementi geometrici ai quali nemmeno l’arte del Novecento è stata insensibile. Anzi, li ha trasformati nei punti fermi della pittura astratta, o quantomeno di una delle sue principali declinazioni. Astrazione geometrica, estremo rigore: punto, linea e superficie. Tuttavia, proprio nel Novecento, il filo che in origine legava l’oggetto alla sua sintesi geometrica, e la geometria al simbolo, il simbolo allo spirito, è andato sfibrandosi con impressionante rapidità. I lirici propositi che avevano animato Kandinsky, Malevic e Mondrian hanno ceduto il passo ai pattern ubriacanti dell’op-art, sono stati colpiti al cuore dagli spigoli affilati del minimalismo. In arte la geometria è diventata autosignificante e autoassertiva, glaciale e monosemica.
Provare a riannodare quel filo virtuale è la ragion d’essere di queste opere di Carmen Boccù. Con la sua passione per lo shivaismo del Kashmir e per la cosmografia induista, con il gusto raffinato del disegno, del colore e della composizione delle forme. E soprattutto con l’accettazione della fragilità e dell’imprecisione, perché le sue figure rivendicano il fatto di essere tracciate a mano libera, le campiture cromatiche non conoscono l’arroganza della perfezione. Riconoscere la fallibilità della mano, la debolezza del tratto di matita significa accettare la vita: l’errore, la mutazione improvvisa, la delicatezza di un segno che potrebbe farsi differente, o addirittura scomparire da un momento all’altro. Tutto questo equivale a cercare un ordine, un significato in ciò che esiste, lasciando sempre una porta aperta sul Caos, che dell’universo è la fonte primordiale.
Le opere di Carmen Boccù sono dominate da geometrie mistiche – il tridente di Shiva, l’uovo cosmico, l’arco e la freccia – che non si presentano in modo assoluto e univoco, ma si lasciano leggere anche come geometrie ludiche. Ludiche nel senso più nobile del termine, come lo sono le opere di Paul Klee. Rivelano il piacere dell’artista nel disegnarle e si aprono al piacere dello spettatore. Anche chi di shivaismo non ha mai nemmeno sentito parlare può giocare a “sentire” i soggetti, a tracciare interpretazioni che nascono dal suo vissuto, dalla sua cultura e dal suo inconscio: linee che possono essere scudi e corna, serpenti o simboli erotici. Ci si sofferma davanti al dipinto e si prova a decodificarlo, sapendo che ogni ipotesi è fragile come la carta sulla quale Carmen ha lavorato, leggera come il tocco dell’artista, legittima come il diritto di giocare ed emozionarsi.
È una pittura che nasce da un pensiero complesso e da una visione del mondo ben definita, ma che ha l’umiltà di non imporre un’unica chiave di lettura. Lo stesso si può dire di tutta la produzione di quest’artista, che non si limita a dipingere ma “gioca” anche con l’incisione, padroneggiando tecniche complesse come la maniera nera; e plasma argilla e gesso, con i quali dà vita a sculture fortemente evocative. Anche qui forme semplici, vasi, maschere e barche. Coppe che contengono il tempo, come nella tradizione indiana, sapendo bene che per l’uomo il tempo è fatto di ricordi e fantasie, angosce e sogni, e che tutte le emozioni finiscono con l’equilibrarsi. Ecco perché a coprire i vasi Carmen posa spesso una maschera, un volto umano con gli occhi chiusi, in pace con se stesso e con il cosmo.
Roberto Mottadelli